Archivio per la categoria ‘Il potere del linguaggio’

Parlando di Neorealismo, non si poteva non parlare dei luoghi fisici in cui è nata, cresciuta e si è sviluppata questa corrente.

Esistono aluni luoghi che gli artisti infatti prediligevano: in questo senso, il triangolo tra Piazza di Spagna, via Margutta e via Ripetta fungeva un po’ da fulcro centrale per i neorealisti.

Infatti, in molti, dopo cena, si riunivano nel bar Luxor (che sarebbe poi diventato il bar Canova), soprannominato tuttavia l'”obitorio”, per il suo squallore. Sull’ altro lato della piazza, il bar Rosati offriva serate altrettanto piacevoli agli artisti nostrani; si ritrovavano nello studio di Guttuso a via Margutta, in quello di Carlo Levi a Villa Strohl-fern, oppure nei caffè e nelle osterie, tra cui l’Osteria dei Pittori (oggi Caffè dei Pittori, bar su Via Flaminia frequentatissimo dagli studenti della facoltà di Architettura de La Sapienza e da quelli di Mediazione Linguistica della Gregorio VII). Tra tutte spiccava però l’Osteria dei fratelli Menghi, che, al posto dei soldi all’ora del conto, accettava addirittura che si regalassero quadri da appendere alla parete. Non si trattava, però, di semplici osterie, quanto piuttosto di luoghi di livello culturale molto alto, dove si aveva l’opportunità di ascoltare discorsi di ogni sorta proveniente dalle menti più brillanti dell’epoca.

bar_canova

 Coloro che frequentavano questi posti, infatti, erano non solo pittori, poeti e artisti di strada, quanto anche cineasti e stelle del cinema italiano, del calibro di Federico Fellini, Anna Magnani, Mario Monicelli, Roberto Rossellini e tanti altri.

anna magnani

Oggi andrò un attimo “fuori dallo schema” per affrontare uno dei tanti linguaggi esistenti nel mondo e che viene compreso da ciascuno, seppur non allo stesso modo: quello artistico e letterario.

L’arte e la letteratura hanno un ruolo chiave nella storia dell’uomo, costituiscono il “sistema di segnali” più aperto all’immaginazione che esista. Permette a chiunque di spaziare, di creare mondi nuovi nella propria mente, di vagare e figurarsi come protagonista di quella determinata opera, o di quella pittura. Rappresentano l’incessante, instancabile e sempre diversa creatività dell’uomo, che mai smetterà di scegliere di rapportarsi così al mondo che lo circonda.

In particolare, vorrei affrontare il linguaggio che ha caratterizzato un periodo storico che definire “difficile” è riduttivo: il dopoguerra del Novecento. Parliamo dunque del Neorealismo.

Corrente sviluppatasi tra fine Ottocento e inizio Novecento in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, il Neorealismo nasce dapprima come movimento filosofico in risposta al soggettivismo dell’idealismo, e trova diverse interpretazioni tra i filosofi, che pur erano d’accordo sul tema comune, ovvero il rapporto tra coscienza e oggetto. Senza soffermarci sulla filosofia, analizzerei l’utilizzo e la diffusione di tale movimento in Italia.

NeoRealismo1

Dopo la tragedia, la paura, la sfiducia nel mondo, il terrore, la morte e la desolazione portate dalla Seconda Guerra Mondiale, il popolo italiano ha bisogno di dare voce, testimonianza e forma alle assurde vicende degli anni trascorsi, ha un bisogno disperato di raccontare il proprio dramma in maniera vera. Da qui, la diffusione, tra autori, scrittori, letterari, di un linguaggio estremamente chiaro, che abbandonava qualsiasi “bella forma” e aulicità, qualsiasi tipo di letteratura “di svago”, prediligendo invece quella impegnata, che mettesse davanti agli occhi di tutti la situazione attuale dell’epoca, per un’Italia che fosse unita e antifascista. Una serie di iniziative danno speranza alla crescita italiana e alla stessa gente. Il Neorealismo si distacca dal convenzionale, rifacendosi piuttosto agli autori del Verismo, come Giovanni Verga, e trova la propria espressione nel cinema, nel teatro, nella letteratura.

neorealismo2Per quanto riguarda il cinema, i registi di quegli anni optano per un impegno morale, e si trovano uniti nell’esigenza di conoscere e raccontare la realtà. Da qui, la scelta di dare voce a personaggi e storie della quotidianità, di dare spazio a facce nuove e anche non professioniste del mestiere, e di un parlato che si avvicinasse quanto più possibile al colloquiale, al dialettale, rifiutando il doppiaggio. L’opera senza dubbio più nota è il capolavoro di Rossellini, “Roma città aperta” (1945), evocazione della lotta e della Resistenza al popolo tedesco. A seguire, “Paisà” (R. Rossellini, 1946), “Sciuscià” (V. De Sica, 1946), “Ladri di biciclette” (V. De Sica, 1948) e tanti altri.

Grazie al Neorelismo, l’Italia si “regala” uno spaccato di umanità e realisticità, dopo anni che avevano letteralmente messo a ferro e a fuoco la penisola.

 

Come accennavo nell’articolo precedente, noi siamo in grado di comunicare in migliaia di modi diversi. E dopo aver chiarito la differenza tra lingua e linguaggio, possiamo iniziare ad approfondire le varie forme del linguaggio propriamente detto.

Partiamo da quella verbale!

Il linguaggio verbale è il più diffuso al mondo, non c’è che dire. E oggi più che mai sappiamo come sfruttarlo: TV, radio, CD, documentari, film. E’ il più immediato, il più semplice, il più diretto. Correggo: dovrebbe. Eh sì, perchè non sarò l’unica a pensarlo, a volte, troppo spesso, parlare sembra diventare invece la cosa più difficile del mondo. La forma e il contenuto del nostro discorso variano da persona a persona, da contesto a contesto, dipendono dalla nostra età, dalla nostra “saggezza”, dal livello culturale, dal nostro stato emotivo del momento. Ed ecco che, magari, in un ambiente formale riusciamo a dire di tutto, e davanti al nostro fidanzato, o moglie, figlio, parente, migliore amico, non “spiccichiamo parola”.

E’ così curioso il cervello umano… così bizarro quanto il nostro subconscio (ma anche il “conscio”, quando vuole) riesca a metterci in difficoltà in determinate situazioni. Perchè quando perdiamo qualsiasi freno inibitore, escono fuori dalla nostra bocca cose che mai vorremmo dire? Ma credo che questa sia proprio un’altra storia…

Le parole sono ciò che ci contraddistingue da qualsiasi essere vivente sulla Terra. Ciò che ci rende unici nel nostro genere. Quasi mai però ce ne rendiamo conto… Troppo spesso le utilizziamo senza un motivo preciso, senza pensarci, senza pesarle, senza frenarle o caricarle invece quando serve. Credo che abbiamo perso di vista i tanti doni che abbiamo e che mai dovremmo sprecare, e la parola è sicuramente tra questi. Le parole accarezzano, fanno ridere e sorridere, possono migliorare le giornate di tanti, possono alleviare, possono consolare; sono in grado di compiere cose che neanche immaginiamo. Possono, però, anche colpire, ferire, distruggere, spezzare entusiami, e per inserire una nota di tristezza, nel peggiore dei casi possono anche spezzare vite umane.

Quando pensiamo “be’, ormai l’ho detto, ormai è fatta”, è perchè sappiamo che una parola non si può rimangiare. Non torna indietro, non c’è il “rewind”; non si cancella con la gomma o col bianchetto, non puoi registrarci sopra. Anche per questo rappresenta una delle armi più potenti a nostra disposizione. E per questo, va usata con cautela. Non buttiamola al vento come fosse un aeroplanino di carta. Ciò che ho scritto non vuole assolutamente essere una “morale”, nè tantomeno un'”ammonizione”! Non sono nessuno per poter fare queste cose! Sono solo pensieri, e io sono la prima, troppo spesso, a non rispettarli… Sicuramente è qualcosa su cui rifletterci su 😉

Molto spesso credo che gli animali la meritino molto più di noi!

Tuttavia, non sono tutto. Pensiamo a chi, purtroppo, non ha questa facoltà. Le persone mute, che normalmente sono proprio sordo-mute, non possono forse esprimersi anche loro? La risposta è ovvia. E’ anche per questo che esistono tutte le altre forme del linguaggio.

 

In quanti modi comunichiamo noi durante una giornata?

Pensiamoci un attimo.

Usiamo le parole, i gesti, le occhiate, le note scritte quando magari non vogliamo che il nostro messaggio venga condiviso con tutti, le smorfie, persino.

Inutile dire che non tutti al mondo utilizzano la stessa lingua. Possiamo affermare, però, che è probabile che la maggior parte di noi utilizzi lo stesso linguaggio.

Magari non c’è bisogno di specificarlo, ma a volte tendiamo erroneamente ad accumunare una parola all’altra, pensando di stare utilizzando semplici sinonimi. Quasi tutte le parole hanno certamente dei sinonimi, ma non è altrettanto scontato che i sinonimi siano effettivamente “sinonimi” tra loro. (Scusate il gioco di parole). Già solo la differenza tra il termine “lingua” e “linguaggio” è sostanziale.

La “lingua”  è il sistema grammaticale e lessicale grazie al quale gli esseri umani comunicano tra loro, ed è inoltre il modo di esprimersi proprio di un ambiente, di un mestiere, di una scienza. Possiamo identificare sotto questa accezione, dunque, l’italiano, il tedesco, il serbo, il finlandese, le lingue artificiali, quelle classiche, quelle morte, e così via.

Per “linguaggio” invece si intende la capacità propria della specie umana di comunicare grazie ad un sistema di segni vocali, ma si intende anche un sistema di segnali per mezzo dei quali gli animali comunicano tra loro, e il sistema di significazione che l’uomo attribuisce a determinati gesti, simboli, oggetti.

Queste sono le definizioni che lo Zanichelli ci offre, un po’ parafrasate. Studiando Mediazione Linguistica, ho avuto l’opportunità di potermi rendere conto di quanto tante persone non facciano caso ai termini che usano. Tradurre, scrivere un articolo, interpretare un testo, non sono proprio “giochi da ragazzi”. Ho imparato quanto effettivamente non basta fermarsi sulla prima traduzione o significato del termine, anzi. E’ certamente un punto di partenza, ma non può essere quello di arrivo.

Dopo questa breve parentesi, torno a dire che “lingua” e “linguaggio” sono parole da utilizzare con cognizione di causa. Ho voluto semplicemente chiarire questo punto, dal momento che credo sia una premessa fondamentale per un blog che “pretende” di analizzare entrambi. Non a caso, li ho definiti “mondi paralleli”.

Si spostano, leggono, pensano, parlano (da soli o in compagnia), ascoltano musica, spingono, ridono, spingono, sudano, se ne fregano di quello che gli accade intorno.

Chi sono? Semplice: il popolo dei Mass Metro.

Sotto questa voce possono essere raggruppate tutte quelle persone che viaggiano giornalmente o saltuariamente in metropolitana. Potrei indicare tra parentesi anche coloro che utilizzano il tram, l’autobus, il trenino, eccetera, ma concentriamoci su di loro e diamo una panoramica generale (e generalizzata) di quanto accade in una giornata-tipo.

Chi usa la metro lo sa, oppure può darsi si ritrovi proprio in questa particolare categoria.

Metro A. Si parte da Vittorio Emanuele direzione Battistini. Alle 8.30 le banchine sono inavvicinabili. Per arrivarci però, il coraggioso deve affrontare “loro”: non hanno una direzione precisa, nel senso della traiettoria puramente detta, si spostano da destra a sinistra e viceversa senza un apparente motivo, costringendoti a fare un simpatico zig-zag per tutta la durata del tunnel. Arrivato a “quel coso dei biglietti”, cerchi invano di passare la tua tessera, ma un signore anziano, una cinese, un turista o semplicemente uno che non ha molto da fare in quella giornata, decide che per te non è il momento, e ti fa aspettare mentre gira il biglietto in tutti i modi possibili, finchè arriva chi sta in guardiola e gli dice come si fa. Passi, prendi le scale mobili. Generalmente le trovi libere da un lato, e riesci ad arrivare in fondo, dove ti aspettano un’altra volta “loro”. Il display dice “3 minuti”, e in quei 3 minuti arrivano tutti insieme, manco si fossero dati appuntamento. Arriva la metro, ma è lì che inizia l’inferno: per potersi accaparrare un singolo spazietto, si è disposti a fare di tutto, cominciando dal non fare scendere quelli che devono. Inutile dire “fate passare”, loro non ti ascoltano.

In metro: personalmente preferisco sempre gli spazi dimenticati dalla maggior parte, quelli attaccati all’uscita opposta alla tua, quelli “mobili” tra un vagone e l’altro dove ti puoi solo poggiare alla parete, e simili. Ma loro NO. Perchè, se tanto non devo scendere alla prossima, mettermi distante dalla porta di uscita? Non ha senso! Molto meglio rimanere incastrati e attaccati al sostegno al centro, non si sa mai. Arrivati a Termini si tocca il fondo. La gente per entrare calpesta i piedi, le mani, sgomita, urla, viene trascinata come un pesce rosso verso il fondo del lavandino, e finalmente, le porte si chiudono.

Vorrei analizzare con voi alcune interessanti e strane figure che un comune viaggiatore incontra in metro una volta passato a Termini.

C’è l’intellettuale: è quello che sa come va il mondo, e lui la metro non l’avrebbe mai presa se non fosse stato costretto. “Che barbari”.

C’è la vicina di casa: in grado di attaccare bottone con chiunque, persino con un Pakistano che invano tenta di capire dov’è e che non ha la minima intenzione di starla a sentire. Anche perchè, non la capisce. Generalmente parla in dialetto.

C’è la classica vecchietta: lei è quella che “mamma mia, oggi proprio non si cammina; oggi i giovani non sanno neanche prendere la metro; perchè, signora mia, mio padre diceva ‘sono sempre gli stessi culi che scaldano il Parlamento’. E c’aveva ragione!”. Si troverebbe perfettamente a suo agio con “la vicina di casa”.

C’è il razzista: ah, quello non manca da nessuna parte, ma in metro le sue qualità si accentuano. Inutile spiegare quello che dice di solito, perchè la sua frase standard è: “annatevene a casa”.

C’è il turista: poverino, fa una pena. La maggior parte delle volte non si ricorda neanche come si chiama, e da ingenuo ancora si mette lo zaino dietro le spalle e non davanti per controllarlo. Poi dici che te solano.

C’è il turista…versione 2.0: lui è l’evoluzione. E’ quello che ha già capito tutto, che sa come funzionano le metro a Roma, e non si stacca dal suo posticino di fronte all’uscita, anche se deve arrivare al capolinea. E’ quello che ti prende per i fondelli e crede che nessuno possa capire la sua lingua.

C’è il lettore: recentemente sostituito da “colui con l’IPad”, legge. Legge, legge e legge, e non gliene importa un fico secco se tu devi sederti, se devi alzarti, se devi scendere alla prossima. Lui legge e leggerà sempre.

C’è quello che non si lava: come il razzista, non manca mai. Ma in metro, dove non c’è neanche un finestrino ovviamente, non scappi. La sua ascella o la sua schiena (ancora peggio), saranno sempre attaccate a te. Per non farti sentire solo.

C’è quello che parla al telefono: e che ovviamente ti fa sapere vita, morte e miracoli della persona con cui sta parlando, e anche della sua. Pigiati come il wurstel nel panino, circondati da tutti quelli appena elencati, lui ha la stessa filosofia del lettore: parla, parla e parla. Quasi quasi ti dispiace non sapere come è andata a finire col suo amico che doveva lasciare la ragazza.

Sarebbe impossibile elencarli tutti, mancano il coatto, la mamma con il passeggino, il tizio col cane, il rapper, quello che parla da solo, lo studente, eccetera eccetera eccetera. Sono milioni.

E sempre più convinti, vanno avanti per la loro strada.

Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.

Mi accorgo, in giro, tra gli amici, tra i conoscenti, o semplicemente ascoltando le persone in metro, per la strada, all’università, di come la maggior parte di noi non sia in grado di sviluppare un discorso di senso compiuto, che abbia una premessa, una conseguenza, un’argomentazione, e poi una conclusione. Sempre più spesso ascolto discorsi sconclusionati, privi di senso e soprattutto colmi di frasi fatte, di modi di dire, luoghi comuni e quant’altro. Non so, forse tutta questa “evoluzione” che stiamo vivendo (che a me sembra piuttosto una involuzione, ma questo è un altro discorso), ci porta a ragionare sempre meno, a parlare sempre meno, a cercare di abbreviare i tempi il più possibile, ad essere concisi, sbrigativi, perchè “sennò non ti stanno a sentire, sei palloso, vuoi fare il saccente o vuoi sempre avere qualcosa da ridire”.

Ecco, tutto ciò sinceramente mi mette una profonda tristezza. Senza considerare il linguaggio scritto, tra l’altro.

Facebook in questo ci offre delle chicche non da niente! Sempre per le ragioni che ho elencato prima, le persone vanno di fretta, non si preoccupano di come scrivono, a volte neanche di quello che scrivono. (E questo è ancora un altro discorso). Leggendo certi commenti, post, “stati personali”, mi domando se a questo punto sono io a essere troppo “puntigliosa”, a chiedere un minimo (davvero, un minimo!!) di senso della grammatica (e della vergogna) o se invece sono quelli che scrivono a fregarsene appositamente – e con quale scopo non si sa!

Sono andata all’asilo, alle elementari, alle medie, ho preso il liceo classico e ora sto studiando all’università; una vita come quella di tanti, in fondo, abbastanza normale direi! Possibile che in quel salto dagli 11 ai 12 anni la maggior parte delle persone abbia cancellato totalmente tutti e 5 gli anni delle elementari??

Non è una polemica, non vorrei risultare pesante nè tantomeno passare per la maestrina (vedi sopra), solo che vorrei fare una considerazione: l’Italia è già un bel pezzo che va a rotoli, non parliamo di “di chi è la colpa”, di politica, ecc, ma del livello culturale delle persone che ci abitano. Assistiamo ad un processo di retrocessione, dove solo una minoranza tenta ancora di combattere. Non è giusto fare di tutta l’erba un fascio, ma vogliamo tentare di salvare almeno l’italiano dal declino?

Buongiorno a tutti!

Avvio il mio blog con il primo articolo! Come già annunciato, vorrei trattare del linguaggio che caratterizza il romanzo Arancia Meccanica, ma prima di poter affrontare un argomento così complesso, bisogna necessariamente fare delle premesse.

Il linguaggio è l’argomento principale su cui mi soffermerò, per cui vorrei partire da alcune considerazioni: pensiamo mai a come parliamo, a come diciamo ciò che vogliamo comunicare? Oltre al classico “è stato un piacere conoscerti” che diciamo dopo aver incontrato una persona nuova, a fine giornata saremmo anche in grado di poter affermare “è stato un piacere…parlarti”?

Da una semplice conversazione, il nostro interlocutore è in grado di farsi un’idea generale su di noi, sulla nostra personalità, sui nostri interessi. E non lo dico io, ma è stato affermato da diversi studi psicologici portati avanti nel mondo. Se è vero che l’aspetto fisico incide fortemente sull’idea che diamo di noi stessi in un primo momento, è altrettanto vero che una volta che iniziamo una conversazione con qualcuno, il cervello agisce come se si sintonizzasse su un altro canale, e comincia ad elaborare un pensiero che si basa sulle informazioni che gli arrivano dall’esterno. Non a caso, il famoso proverbio “è bello ma non balla”, è il frutto proprio della seconda impressione che una persona ha di un’altra.

Troppo spesso dimentichiamo la forma, la “cornice” del nosto discorso, o semplicemente non ce ne curiamo. “L’importante è ciò che si dice”. Può darsi, a volte. Ma la maggior parte delle volte è vero il contrario: paradossalmente è molto più semplice seguire un discorso inconcludente dove l’oratore è però convinto di quello che dice, ha padronanza del linguaggio, “carattere” e capacità comunicative forti, piuttosto che riuscire a prestare attenzione ad una persona oggettivamente molto preparata e di cultura, ma che utilizza lo stesso tono di voce per tutto la durata del suo intervento.

In una conversazione, dunque, non dimentichiamoci di chi abbiamo davanti, adattiamo il nostro tono di voce all’interlocutore, così come il nostro modo di porci.

Sarà tutto un altro discorso!

Salve a tutti, mi chiamo Beatrice, ho 22 anni (e mezzo) e studio Mediazione Linguistica presso la SSML Gregorio VII, a Piazza del Popolo.

Sono ormai al terzo anno, e tra due mesi finalmente mi laureerò! Ho creato questo blog per potervi rendere partecipe di un argomento che intendo approfondire e che non a caso tratterò nella mia tesi di laurea! 

La mia tesi si concentrerà su di un argomento piuttosto insolito, o meglio, su di un libro controverso, su cui le opinioni di critica e pubblico sono davvero contrastanti: Arancia Meccanica. Girando in rete, ho notato quanti blog e siti internet fossero dedicati a questo romanzo (dal tema opinabile e discutibile sotto ogni punto di vista), ma ho anche potuto constatare quanto queste pagine online si focalizzassero puramente sull’argomento del libro, sulla sua valenza psicologica, sul suo impatto nel sociale, eccetera. Da quello che ho visto, pochi hanno portato la loro attenzione sul linguaggio utilizzato in Arancia Meccanica, o meglio, hanno puntualizzato quanto questo avesse influito nella riuscita del romanzo, ma si sono limitati a fornirne un “dizionario” di vocaboli con la relativa traduzione. L’indirizzo del mio blog è chiaro: l’etimologia del linguaggio. Ciò che mi piacerebbe è approfondire gli aspetti che personalmente ritengo rilevanti per studiare il nadsat (il gergo di Arancia Meccanica), per cui, a voi la scelta: continuare a leggere o cambiare pagina! 😉

A presto!